Pensare che in questo secondo anno di Genroku (1689) ho ceduto al desiderio di vedere i
lontani sentieri del nord! E’ come se fossi in viaggio per l’estremo confine della terra! e un
viaggio talmente malagevole da farmi incanutire; ma coi miei occhi vedrò alfine le cose di cui
avevo soltanto sentito parlare. Sarò felice se tornerò, mi dicevo camminando, prendendo forza
dalla speranza incerta. La sera di quello stesso giorno raggiungemmo la stazione di posta di
Soka. La fatica veniva dal peso del fagotto sulla mia spalla scarnita. Avevo progettato di
viaggiare leggero, solo con i vestiti addosso! Poi avevo aggiunto uno spesso telo di carta per
le notti fredde, e un yukata di cotone, e una cappa di paglia per la pioggia, lo scrittoio,
l’inchiostro, i pennelli, tutte cose che apparivano indispensabili e oggi mi pesano e
m’imbarazzano. Senza contare i regalini d’addio, che non è corretto abbandonare.
A Yashimi visitammo il santuario della “Capanna in fiamme”, consacrato alla divinità
Konohana Sakuya Hime (la bellissima Principessa-che-fiorisce-come-i-fiori sedusse il nipote
della dea Amaterasu Ninigi-no-Mikoto sceso sulla terra con il tesoro di spada, gioiello e
specchio per dare inizio alle dinastia imperiale), la stessa che è onorata al monte Fuji. La
leggenda vuole così: quando il dio che era suo sposo rifiutò di credere che il bimbo, concepito
nella loro unica notte insieme, fosse suo, lei si murò in una capanna di argilla e paglia e,
appiccando il fuoco, gridò che se il bimbo si fosse salvato, questo avrebbe provato la sua
innocenza. Generò allora il dio Hohodemi (“nato dalla fiamma”), e da allora la tradizione
locale vuole che i versi che nascono in questo luogo contengano un’allusione al fumo. Questo
mi raccontò Sora.
Altre usanze, come quella di non mangiare il pesce konoshiro, il cui odore ricorda quello della
carne umana bruciata, hanno senza dubbio la stessa origine.
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